E’ stato un flop il flash-mob organizzato da due associazioni di sinistra al bagno Pedocin di Trieste per entrare in acqua vestiti come segno di solidarietà con le donne musulmane che indossano il burkini. Ma la “chiamata al burkini” ha raccolto pochissime adesioni, a dimostrazione che la grande maggioranza degli italiani non ne vuol sapere di islamizzare i propri spazi. Il burkini è infatti un segno visibile di islamizzazione e di discriminazione della donna, e se qualcuna può anche indossarlo con orgoglio, resta il fatto che è il segno esteriore di una discriminazione contraria ai canoni della nostra cultura, oltre che l’affermazione di un’integrazione sdegnosamente respinta in nome della presunta superiorità religiosa nei confronti dell’Occidente. Questo in omaggio al dogma coranico secondo cui la donna deve essere coperta da lo capo ai piedi in una gabbia di tessuto. Tollerare il burkini significherebbe dunque accettare un’imposizione islamica, e il divieto deciso da alcuni sindaci friulani è quindi pienamente condivisibile. Un tempo i movimenti femministi erano contrarie al costume integrale, definito “una gabbia e c’era la convinzione diffusa che la paura di sembrare anti-islamici non doveva avere la meglio sul femminismo e sulle sue storiche battaglie. Domani invece un’associazione femminista scenderà in spiaggia col burkini per solidarietà con le donne musulmane, un’iniziativa che appare come un’autentica contraddizione in termini. Ma non c’è da stupirsi: basta ricordare il silenzio che ha accompagnato la lotta delle ragazze iraniane contro il burqa, e la decisione dell’Ue di celebrare il 75esimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo utilizzando come simbolo una ragazza coperta dal velo islamico. Mentre le donne iraniane lottano contro il regime degli ayatollah, rischiando la morte, per liberarsi dall’obbligo del velo islamico, dunque, l’Ue continua invece a considerarlo un simbolo di integrazione. L’Europa è divisa da tempo fra chi considera il divieto di portare il velo una limitazione della libertà religiosa e chi lo ritiene invece un passo ineludibile per affermare la piena dignità delle donne. Ebbene, la sinistra su questo punto ha sempre tenuto una posizione tartufesca, non considerando l’imposizione del velo islamico in contraddizione con l’uguaglianza e la pari opportunità delle donne. Paradossi che hanno spesso influenzato anche le politiche comunitarie nei rapporti con l’Islam, e i risultati sono evidenti: troppe ambiguità in nome dell’integrazione islamica hanno finito per favorire il fondamentalismo e la predicazione contro l’Occidente. Eppure la Corte Europea dei Diritti Umani si è spesso pronunciata sulle presunte violazioni del diritto alla libertà di religione, definendo il velo come un simbolo imposto alle donne da un precetto coranico discriminatorio tra i due sessi e ritenendo quindi legittima la norma francese che proibisce l’occultamento del volto negli spazi pubblici. Considerare il velo come un simbolo di integrazione altro non è, dunque, che un grottesco ossimoro: l’hijab obbligatorio è infatti il baluardo ideologico del khomeinismo, al pari della dottrina anti-occidentale e alla negazione del diritto di Israele ad esistere e l’Ue dunque, esaltando il velo, compie un atto vile di sottomissione all’Islam, in triste continuità con quella corrente di pensiero intellettuale che, allo scoppio della rivoluzione iraniana lo considerò non una limitazione della libertà delle donne, ma una forma di resistenza al dispotismo dello Scià e all’imperialismo americano.