Ci sono storie che iniziano e terminano come quando si dà fuoco alla paglia e dopo pochi secondi non rimane che polvere e storie che hanno ritmi lenti come le onde del mare in una torrida giornata d’agosto.
Quella della Cina appartiene alla seconda categoria ma non per questo gli effetti sono stati meno devastanti. Il popolo cinese, di civiltà storicamente raffinata, si è indurito per le sue vicissitudini, prima fra tutte la dittatura, che nei decenni non si è astenuta dal compiere azioni contrarie a tutti i principi fondamentali, fino al disprezzo del diritto alla vita.
Tratto caratteristico è sempre stata l’estrema pazienza di questa civiltà laboriosa, disposta a portare un giogo sulle sue spalle geneticamente minute che nessun gigante occidentale avrebbe mai potuto sopportare. Ed è su questa pazienza che l’Occidente è scivolato maldestramente. La Cina ha fatto come il tarlo nella trave.
Per capire meglio occorre rammentare due date: 9 novembre 1989, 15 aprile 1994. In questi due giorni è cambiata la struttura e la velocità del mondo. La prima data è nota, il big-bang della storia contemporanea: il crollo del muro di Berlino. La seconda, meno nota, è la stipula a Marrakech, in Marocco, dell’Accordo WTO (World Trade Organization) sul libero commercio mondiale. Da quel giorno il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Se la cultura araba avrebbe poi reagito in maniera rabbiosa scagliandosi contro l’Occidente a suon di bombe e attentanti, quella asiatica ha reagito in positivo. Il punctum dolens di tutto: la stipula del negoziato UE-Cina sul WTO del 19 maggio 2000.
Nel giro di poco tempo le barriere delle frontiere interne sono cadute per fare strada al mercato unico globale. Un mercato in cui da una parte vigono tutele, vincoli e previdenza e dall’altra un popolo governato da una dittatura comunista/turbo capitalista che lavora notte e giorno per corrispettivi incommentabili, senza tutele, producendo a costi irrisori prodotti destinati a competere in una lotta vinta in partenza, in un mercato dove il prezzo di vendita infinitamente inferiore contribuisce alla desertificazione della concorrenza occidentale. Ma il popolo cinese non si è limitato alla manifattura a basso costo. Ha sviluppato tecnologia, credito, finanza e produzione militare. Dopo l’11 settembre2001 (altra data clou) soltanto l’Europa ha tardato a rimettersi in carreggiata, segnando tempi e zone di crisi semi perpetua. Segno indubbio che nelle sue metodiche e nei principi motori economici e politici c’è molto da rivedere.
Prima evidenza della globalizzazione che ha invaso il vecchio continente, impreparato a subirla. L’allargamento del WTO, che avrebbe dovuto essere nei progetti un modo di impossessarsi di enormi mercati, si stava rivelando portatore del fenomeno inverso. Come i pifferi di montagna: andati per suonare e furono suonati. A fronte fi un bipolarismo consolidato USA-Cina, dove anche gli Usa hanno dovuto fare i conti con la Cina galoppante, l’economia americana ha retto il colpo e ha contrattaccato.
L’Europa, che non è protagonista, com’era nei sogni dei fautori della moneta unica, ma terzo commensale, zoppica non poco. C’è l’obbligo di rivedere le proprie priorità di politica economica. Dovrebbe tornare a prevalere l’economia reale su quella speculativa e finanziaria nei paesi a prevalenza manifatturiera si dovrebbe imporre una politica anche differenziata di tutela della piccola e media impresa, la protezione del risparmio per il suo impiego in investimenti produttivi, valorizzando i sistemi omogenei di comunità locali anziché un globalismo economicamente e culturalmente dannoso nella sua lettura finanziarista.
La Cina in questo senso può rappresentare un’opportunità, per la valorizzazione del consumo di qualità, seppur in gravissimo ritardo. Oppure essere il de profundis dell’Occidente se esclusivamente fornitrice di prodotti a basso costo e capitali d’avventura. Tocca a noi decidere quale strada prendere.