Gli Stati confusionali delle cinque stelle cadenti si sono conclusi com’era prevedibile: senza un accordo politico e senza una scissione, categorie troppo elevate per un movimento di scappati di casa che nel dna hanno sempre avuto non il rinnovamento della politica, ma quello del proprio guardaroba, per cui l’unico obiettivo resta il mantenimento ad ogni costo delle poltrone conquistate senza merito e senza sudore. Una compagnia di giro senza arte né parte, che mentre si accinge a correre a braccetto del Pd alle prossime amministrative, ora disquisisce di “alleanze programmatiche ma non strutturali”, le convergenze parallele di un populismo che non ammaina le sue vecchie bandiere ma ormai le esibisce solo come vessilli sotto cui nascondere le proprie vergogne. Chi sarà il capo politico? Sarà una guida collegiale: è tutto già deciso da mesi, ma come sempre il popolo del web sarà chiamato a mettere il timbro sull’ennesima farsa, anche se la piattaforma Rousseau più che la proiezione della politica nel futuro digitale sembra un feticcio logorato e pronto alla rottamazione.
In questo teatrino, Di Battista finge ancora di porre condizioni: le chiama “garanzie”, dal doppio mandato da mettere nero su bianco al comitato di garanzia composto da iscritti e parlamentari, ma senza nessun esponente del governo, per decidere le nomine nei ministeri e nelle partecipate statali. Una fiction nella farsa, perché nessuno ormai crede più a quello che dice. La Taverna pretende che sia approvata subito la sua mozione sui criteri delle nomine, ma non è dato sapere cosa verrà dopo le grandi abbuffate dei compagni di scuola e dei compaesani. Sul doppio mandato Dibba ha fatto il Savonarola dell’ortodossia grillina: nessuna deroga, non sia mai, e Di Maio gli ha fatto il controcanto. Ma lo sanno anche i muri che l’esperienza maturata dalla nomenklatura è un bene troppo prezioso da buttare via, e quindi il carrozzone andrà avanti con i parlamentari scaduti riciclati nelle aziende di Stato e negli apparati delle regioni.
D’altra parte, Grillo ha ha immesso nel corpo del Paese un virus – quello della decrescita infelice abbinata al neostatalismo assistenziale – di cui pagheremo le conseguenze per i prossimi decenni, e il reddito universale da lui invocato si addice perfettamente alle sue creature politiche, che non hanno peraltro bisogno di essere liberate dal ricatto del lavoro, non avendo mai fatto nulla.
La benedizione di Conte a questo consesso di morti viventi è risuonata come uno sberleffo per chi assisteva in streaming all’evento: l’avvocato del popolo si è infatti compiaciuto nel ricordare che la coerenza è un valore, ma quando governi devi avere anche il coraggio di cambiare idea. Poteva risparmiarselo questo consiglio, il premier dei due mondi (politici) – destra o sinistra per lui pari sono –, visto che stava parlando a un Movimento che ha fatto del potere il suo solo mantra, e che la coerenza l’ha seppellita da tempo. La trasparenza è un lontano ricordo, come i pronunciamenti anticasta: il grillismo ormai è un coacervo di veleni e di interessi, finanziari e non, e gli Stati generali hanno segnato la svolta definitiva verso la forma partito. Ma non paragonateli alla vecchia Dc, per cortesia, non fate questo oltraggio paragonando perfino Di Maio a Donat Cattin. E’ vero che la storia si ripete in farsa, ma qui siamo all’avanspettacolo in un teatrino fortunatamente sempre più vuoto. Cala il sipario, ma fuori resta la tragica realtà. Come ha detto il ministro Bonafede: i nostri valori sono diventati leggi dello Stato.
Mai verità fu più triste e amara.