Con lo schianto del Pentapartito, travolto dallo tzunami giudiziario, il vuoto sembrava dover essere coperto dai reduci del muro di Berlino di Achille Occhetto. Ma la “ggente” più vispa di quanto si pensi, girò nel manico e affidò i propri sogni e i propri destini a un arrembante imprenditore brianzolo, dalla parlata ipnotica e la passione per il gioco del calcio. Silvio Berlusconi soffiò sulla vecchia politica come si fa su un libro preso da uno scaffale, mandando all’aria, insieme alla polvere, tutti i suoi riti e le antiche tradizioni, che avevano guidato il Belpaese per mezzo secolo. Dal 1994 ci sarebbe stato solo un ante e un post Berlusconi.
La speranza di molti fu quella di vedere realizzate riforme che la melassa della Prima Repubblica aveva tenuto ingessate. Ecco perché la scheggia impazzita del Cavaliere, alieno, per nascita e appartenenza, ai palazzi romani, fu salutata come l’unico modo per cambiare l’Italia.
Le difficoltà erano immani e ci se ne accorse subito dal fuoco incrociato sparatogli addosso da istituzioni, stampa di regime, procure, volto a eliminare colui che magari con una battuta di spirito cercava di risolvere un affare di Stato.
Tuttavia, nonostante maggioranze parlamentari senza precedenti, dopo tre governi e vent’anni e più giocati da protagonista, il risultato è stato scarso. È suo il merito del bipolarismo, dell’aver immesso nel circuito della politica che conta forze che fino ad allora ne erano rimaste escluse, aver evidenziato deficit strutturali della democrazia italiana. Se aveva intuito la malattia, la cura però fu pari a un bicchiere di Alka-Seltzer.
La riforma fiscale restò una chimera, Il tasto dolente della giustizia è stato battuto freneticamente, ma solo per scontri da guerriglia e spesso pro domo sua. Gli errori del passato si riproducevano pari pari, condannando la maggioranza parlamentare e il Governo a pestare acqua nel mortaio.
Lasciare i meccanismi di spesa pubblica intonsi nei fondamentali e non scalfire lo status quo burocratico, sono stati gli errori clou, per i quali era al governo e non governò, aveva il potere ma non comandò, aveva promesso e non mantenne.
L’errore più grosso fu non aver creato volutamente una classe dirigente che ne potesse gestire politicamente il percorso e raccoglierne l’eredità. La corte dei miracoli con cui si sono composti per larga parte i gruppi parlamentari e gli organi di partito di oggi, sono il risultato di epurazioni successive di capacità e intelligenze.
La logica era chiara: meno personale politico possibile, pensante e capace, in modo da poter contare sulla fedeltà. Peccato che lui stesso abbia pagato il prezzo dell’insipienza e si sia ritrovato tradito dagli stessi che aveva miracolato.
L’idea di un centrodestra moderato e liberale, che potesse avere tra i propri alleati gli stessi che lo accompagnarono nella cavalcata nel ‘94 ma sui quali potesse fare lui da guida è naufragato lasciando a ogni livello politici impreparati e un partito a percentuali omeopatiche. La debolezza consegnataci in eredità ha spianato la strada a caudilli e arruffapopoli.
E il treno delle riforme sul quale eravamo saliti sta lentamente dirigendosi verso il baratro.