Conte in maniche di camicia ha sciorinato tutto il repertorio classico della narrazione qualunquista, mischiando guerra e reddito di cittadinanza, salario minimo e riarmo, come se le spese militari sottraessero surrettiziamente risorse al welfare. La metamorfosi dell’ex premier – da leader “istituzionale” dei Cinque Stelle a capopopolo estremista – simboleggia in modo plastico la confusione di un Movimento alla ricerca spasmodica dei voti perduti all’insegna del tanto peggio, tanto meglio. Siamo tornati insomma alle sceneggiate con regia Casalino: il tono alterato, la rivendicazione delle origini e i pugni sbattuti sul tavolo che, invece di rimarcare il segno del comando, sono soltanto l’indice di una congenita fragilità politica, perché un leader autorevole non ha mai bisogno di alzare la voce. E questo ruggito del coniglio a chi era rivolto? Agli attoniti alleati di maggioranza o agli avversari interni dell’ala dimaiana e governista?
Conte pretende rispetto, ma il primo a mancarsi di rispetto è lui stesso con le continue giravolte, l’impressionante accumulo di contraddizioni, la ricerca affannosa di visibilità e il rancore contro Draghi assurto a categoria politica. Il penultimatum sull’aumento delle spese per la Difesa, sbandierato come una vittoria, è stato invece l’ennesimo passo falso confutato dalle leggi di bilancio dei suoi due governi. Conte pretendeva che l’impegno assunto in sede Nato fosse rinviato al 2030, ma gli è stato risposto picche. Il rispetto, in politica come nella vita, bisogna meritarselo, ma è difficile ottenerlo se nel giro di una settimana prima si approva alla Camera e poi si alzano le barricate al Senato su un identico ordine del giorno: un teatrino intollerabile mentre infuria un conflitto armato ed è in gioco la credibilità internazionale del Paese.
Il contismo, insomma, si sta rivelando non il passaggio alla maturità del Movimento, ma la sua malattia senile, che getta un’ombra preventiva di precarietà sul campo largo a cui Letta sta lavorando da quando è tornato sulla tolda del Pd. Sarebbe più esatto parlare di campo minato per quello che si profila come l’ennesimo cartello elettorale partorito dalla sinistra. La strada imboccata da Letta assomiglia molto a un vicolo stretto che rischia di finire come l’Unione di Prodi, costantemente bombardata e costretta a impossibili equilibrismi dalle spinte antiamericane della sua ala estrema. Allora c’era l’Afghanistan, oggi c’è l’Ucraina, e Conte in versione Turigliatto 2.0 appare una minaccia ancora più temibile per la tenuta di una coalizione che aspira a guidare l’Italia, perché l’ex premier non è un cane sciolto del Parlamento, ma il capo del Movimento che il Pd considera ancora come il suo principale alleato strategico. Siccome la storia insegna che la politica estera è il convitato di pietra della tenuta dei governi, e tra un anno l’intero quadro geopolitico sarà ancora in fibrillazione, l’inaffidabilità di Conte diventa una variabile impazzita in grado di scompaginare i piani di Letta.
Le guerre sono sempre un discrimine che ridisegna confini e alleanze, e chiunque vincerà le prossime elezioni non potrà ignorare il vincolo esterno della nostra collocazione internazionale, che non ammetterà più – a destra come a sinistra – le sbandate filorusse e filocinesi di questa incredibile legislatura.