In vista delle elezioni europee 2024, fioriscono sempre più frequentemente, sulla stampa di sinistra, paragoni tra Meloni e Orban, descrivendo l’Italia come un Paese in preda a una deriva illiberale in cui starebbe per saltare l’equilibrio tra i poteri dello Stato. Ma la Repubblica ieri ha pensato bene di fare un salto di qualità nell’allarme democratico, e ha titolato a tutta pagina “Assalto alla Consulta”, specificando che la destra sta per adottare il modello Trump per cambiare la Corte: un accostamento, diciamo così, molto più tranciante, perché evoca non solo il clima cupo dello scontro sull’aborto provocato dal verdetto della Corte suprema trumpiana, ma anche, perché no?, l’assalto golpista al Campidoglio di Washington. Se c’è da mestare nel torbido, insomma, tanto vale farlo fino in fondo. Motivo di tanta indignata preoccupazione, il fatto che tra l’autunno e il prossimo anno andranno nominati sei nuovi giudici costituzionali su indicazione parlamentare. Tanto basta, evidentemente, per far risuonare l’allarme rosso. Ora, avendo il centrodestra vinto le elezioni e disponendo quindi della maggioranza parlamentare, fa parte del gioco democratico che questa volta non sia la sinistra a orientare le scelte, come accadde invece nella scorsa legislatura, quando Pd e Cinque Stelle fecero man bassa delle poltronissime che via via si liberavano nel Palazzo della Consulta, nominando giuristi di indiscutibile valore, ma tutti progressisti.
Nulla di nuovo, comunque: nella seconda Repubblica, infatti, con la mancata alternanza al Quirinale – dove da Scalfaro in poi si sono insediati tutti presidenti espressione del centrosinistra – nessun giudice della Consulta considerato vicino al centrodestra è stato mai di nomina presidenziale, tanto che Berlusconi si spinse a dire che la Corte, massimo organo di garanzia della Repubblica, era diventata invece “un organismo politico della sinistra”. Il vento non è mai cambiato neppure quando le elezioni le ha vinte il centrodestra, che per contare qualcosa dentro la Consulta ha un solo strumento, ossia la nomina parlamentare, visto che le supreme magistrature che eleggono un terzo dei componenti hanno sempre garantito che i giudici costituzionali fossero in maggioranza orientati a sinistra.
Gli equilibri della Consulta furono profondamente modificati dopo l’elezione di Scalfaro nel ‘92. Nonostante, infatti, il presidente fosse di estrazione democristiana, quando si trattò di nominare quattro giudici costituzionali li scelse in maggioranza fra personalità di sinistra e del fronte laico. Da Zagrebelsky a Fernanda Contri fino a Neppi Modona. Per la prima volta dal dopoguerra, con la nomina di quei giudici, la Consulta non ebbe più una maggioranza formata da cattolici e da personalità vicine all’ex Dc. Una tendenza consolidata da Ciampi, che nominò alla Consulta, tra gli altri, Franco Gallo, che era stato ministro nel suo governo, e Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia ma di Romano Prodi. Napolitano, poi, non invertì certo la rotta: basta ricordare la sentenza che bocciò il lodo Alfano, nonostante fosse stato scritto seguendo riga per riga le indicazioni date dai giudici costituzionali quando avevano respinto il lodo Schifani.
Negli ultimi anni, oltre a far pendere la bilancia sempre dalla parte della magistratura politicizzata, la Corte Costituzionale si è spinta anche a riscrivere surrettiziamente, attraverso dotti e minuziosi taglia-e-cuci, le leggi elettorali, sempre con molto più riguardo per il criterio della rappresentanza che della governabilità, e il tanto vituperato Rosatellum è anche il frutto avvelenato delle sue sentenze. La Corte ha sempre respinto con “sereno distacco” le accuse di politicizzazione, ma in realtà si sono avverati i timori di chi, durante i lavori della Costituente, paventò proprio il rischio di una Consulta il cui controllo di legittimità sarebbe stato spesso di tipo politico, e non giuridico. Ma finché questo controllo è in mano alla sinistra va tutto bene. Se tocca al centrodestra, allora diventa un assalto alla democrazia.