Sostenere, come fa il Pd, che i referendum sulla giustizia presentati dall’insolita accoppiata Lega-radicali sia un sabotaggio alla riforma della ministra Cartabia è solo il riflesso pavloviano di chi, da Tangentopoli in poi, ha sempre preferito lucrare dividendi politici dalle incursioni delle Procure piuttosto che riportare il sistema giudiziario italiano nell’alveo costituzionale. Ci sono volute l’assoluzione dell’ex sindaco di Lodi Uggetti (“La mia esperienza ha insegnato qualcosa ai miei avversari, spero insegni qualcosa anche al mio partito”…) e le inopinate scuse di Di Maio, per spingere il Pd a depositare alla Camera emendamenti a loro modo rivoluzionari, come quello che prevede la valutazione dei pm anche in base ai loro insuccessi e lo stop alle conferenze stampa spettacolari delle Procure. E a far schierare l’ideologo rossogiallo Bettini per il sì ai referendum, anche se li ha attribuiti solo ai radicali omettendo di citare la Lega. Ma insomma, su tutte queste improvvise conversioni al garantismo è lecito nutrire qualche sospetto, anche se l’urgenza dettata dai tempi da rispettare con l’Europa darà un indubbio sostegno al metodo Cartabia.
Vedremo se i paletti ideologici saranno destinati davvero a cadere, e soprattutto se nel Movimento prevarrà la linea governista del ministro Di Maio o quella vetero-giacobina di cui si è fatto portavoce l’ex premier Conte, in guerra legale con Casaleggio ma politicamente molto sensibile in questa fase al richiamo della foresta identitario. Vedremo dunque se e in quale misura verrà spazzato via tutto quello che non è in linea con la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, -più che garantista, sarebbe niente altro che una svolta legalitaria, perché scritta nella Costituzione – e come sarà risolto il nodo della prescrizione, considerato l’ultima Maginot ideologica del Movimento.
E’ nel mondo grillino in ebollizione, dunque, che si annidano i veri rischi per il pacchetto giustizia. E’ vero, come ricorda maliziosamente Costa di Azione – che tre anni fa la Lega votò insieme ai Cinque Stelle perché i condannati per reati contro la Pubblica Amministrazione venissero equiparati ai mafiosi, e che oggi propone invece un referendum perché – abolendo la legge Severino – i condannati per reati contro la Pubblica Amministrazione possano mantenere le cariche pubbliche. Ma è anche vero che Salvini fece cadere il governo gialloverde anche per le divergenze sul giustizialismo, quindi l’unica conversione che appare autentica è proprio la sua, e i referendum non sono una mina per far saltare in aria la riforma, semmai un paracadute perché le modifiche indispensabili ma impossibili da apportare con Pd e Cinque Stelle in maggioranza, come la separazione delle carriere, trovino linfa nel consenso popolare per indicare la strada al legislatore.
In questo senso, i precedenti non sono però incoraggianti: nel 1987 l’80,2% degli italiani votò a favore del quesito referendario sulla responsabilità civile dei magistrati, ma il Parlamento, con la legge 117 del 1988, tradì la volontà popolare sotto dettatura della magistratura. Fu, quello, il primo atto di sottomissione all’ordine giudiziario di una politica già indebolita prima dello tsunami di Mani Pulite. Dunque il problema non sono i referendum, semmai i Parlamenti che ne manipolano i risultati. Salvini punta a raccogliere un milione di firme prima dell’autunno, e se ci riuscirà metterà a segno un successo politico significativo in vista delle amministrative.