Il “nuovo” Pd nasce sulle macerie del “vecchio” ereditandone tutti i difetti e se possibile accentuandoli: il manifesto rifondativo, che pure dovrebbe necessariamente segnare una qualche cesura politica rispetto agli esiti di una stagione fallimentare, non si pone infatti il problema dell’abrogazione della Carta dei valori su cui nacque il Partito democratico nel 2007, per cui di fatto si riparte con il doppio statuto, all’insegna di un caos primordiale senza soluzione di continuità. Se l’obiettivo esplicitato da Letta è di smetterla di guardarsi l’ombelico per occuparsi dei problemi del Paese, il dilemma marzulliano sul cambio del nome non sembra essere propriamente un buon inizio: è un fatto di forma o di sostanza? Così come il j’accuse formulato dal vicesegretario Provenzano davanti all’Assemblea nazionale: “Non ho mai visto nascere tante correnti come in questo congresso”. Lo stesso monito del segretario uscente (“Non serve un nuovo segretario, serve un nuovo partito”) alla vigilia del congresso che deve eleggere il nuovo leader è echeggiato come alquanto surreale. Insomma, il Pd continua a navigare nella nebbia, con l’unica sconsolante certezza di una bussola che lo porterà sempre più a sinistra grazie al gran ritorno dei compagni di Articolo Uno, in omaggio ai quali è stato scritto il nuovo manifesto, che lascia totalmente per strada la prospettiva riformista (un termine letteralmente scomparso) per concentrarsi su una vaga “lotta alle disuguaglianze” e dare così modo a Speranza e Bersani di dire che stanno entrando in un partito nuovo.
Invece di nuovo non c’è nulla, e c’è molto invece di antico, in una sinistra che non ha ancora saputo celebrare la sua Bad Godesberg per fare i conti col passato comunista, e in ritardo con la storia si trova in mezzo alla crisi del socialismo democratico senza essere mai veramente entrata a farne parte. Da qui il conservatorismo istituzionale, con la difesa a oltranza della Costituzione contro “la scorciatoia del presidenzialismo”, e la deriva giustizialista che riemerge sistematicamente quando l’interventismo politico della magistratura viene messo in discussione. In sostanza, il Pd non ha mai cambiato pelle perché è stato sempre e soltanto un apparato di potere, e se è andreottianamente vero che il potere logora chi non ce l’ha, l’esperienza di questo ircocervo della sinistra italiana insegna che anche un potere esercitato troppo a lungo senza il necessario consenso elettorale alla fine porta nel vicolo cieco dell’irrilevanza. La batosta elettorale di settembre ha improvvisamente rovesciato un mondo che pareva inattaccabile, perché il Pd poteva contare sull’appoggio di tutti i poteri forti, magistratura compresa.
Ebbene, la nomenklatura padrona della sinistra, che si era fatta Stato, ora ha dovuto subire il sorpasso da parte di un parvenu della politica come Conte, alla guida di una pattuglia di dilettanti, e ignara della lezione continua a scontrarsi sul voto on-line e sul cambio del nome, impiegando cinque mesi e mezzo per celebrare un congresso. Nonostante fuori grandini, tra guerra, crisi del gas e inflazione alle stelle, loro non trovano di meglio che scrutarsi l’ombelico.