La stagione delle stragi è stata una delle pagine più buie della storia d’Italia, ma la sconfitta del terrorismo non ha mai portato a una ricostruzione comune di quegli anni: troppi misteri sono rimasti tali, ad ogni commemorazione le ferite si riaprono senza giungere a una memoria condivisa, e a più di 40 anni di distanza questo è un colpevole paradosso ideologico, perché il tempo di approfondire le radici del terrorismo di destra e di sinistra c’è ampiamente stato, ma è sempre mancata la volontà di costruire terreni comuni di ricerca e di riflessione. Anche la strage alla stazione di Bologna, che rappresentò la sfida più terribile alla sicurezza dello Stato, resta ogni anno un’occasione di scontro politico, con la sinistra in piazza a contestare, tanto che per due anni l’ultimo governo Berlusconi fu costretto a farsi rappresentare dal prefetto di Bologna, essendo per questo accusato di mancanza di rispetto verso la città. Un clima infame.
La verità processuale, ossia la matrice neo fascista della strage, va ovviamente rispettata, anche se questo non esclude la necessità di diradare le ombre su mandanti e depistaggi che un controverso iter giudiziario ha lasciato intatte. La sentenza di primo grado pose due punti fermi: lo strumento stragista costituiva un dato proprio della strategia eversiva della destra estrema, e quindi ad essa andava riferita l’esecuzione materiale della strage; altrettanto certo, sul piano dell’accertamento delle responsabilità, era da considerare anche l’inquinamento probatorio di una parte deviata dei servizi, quelli collegati alla Loggia P2.
Ma La Corte di assise d’appello di Bologna, nella sentenza del 18 luglio 1990, ribaltò totalmente questa impostazione di fondo, affermando che la riferibilità alla destra eversiva della strage era sì un’ipotesi verosimile, ma nulla di più: l’inchiesta non aveva insomma raccolto prove certe sulla matrice neo fascista. Due anni dopo, le sezioni unite della Cassazione censurarono però queste motivazioni, e nel ’94 una nuova sentenza, in sede di rinvio, confermò la pista di destra. L’inchiesta sulla strage fu poi riaperta nel 2005 in base a nuovi spunti d’indagine raccolti dal dossier Mitrokhin attraverso documenti reperiti nell’ex Ddr.
Questo per dire che siamo di fronte a una vicenda giudiziaria complessa e tormentata, che ha finora partorito cinque processi, due dei quali sono ancora in corso a 43 anni di distanza, e nel frattempo sono spuntate sempre nuove ipotesi (e depistaggi), dalla pista palestinese di cui era fermamente convinto l’ex presidente Cossiga, al mai provato collegamento con Ustica fino alla strage di Stato rilanciata dall’Unità. “I dubbi su quella sentenza di condanna – disse l’ex presidente della Commissione stragi Pellegrino – in questi anni sono aumentati e si sono allargati anche a sinistra, a dimostrazione che un Paese civile è in grado anche di riflettere senza le lenti dell’ideologia, avendo come unico obiettivo la ricerca della verità”. In effetti, quando nacque il comitato “…e se fossero innocenti?”, per mettere in dubbio la colpevolezza di Fioravanti e Mambro, vi aderirono in maggioranza politici e giornalisti di estrazione radicalmente opposta alla destra.
Dunque, mentre la sinistra soffia di nuovo sul fuoco della polemica, ricordare questi fatti è un esercizio doveroso per dare compiutamente conto degli avvenimenti seguiti alla strage, sulla quale sarà fatta davvero luce solo quando verrà tolto il velo del segreto di Stato su tutti i relativi dossier. Almeno su questo, la condivisione politica dovrebbe essere generale. E’ il passaggio cruciale per accertare se la verità processuale coincide con la verità storica.