Il Pd ha cambiato più volte pelle politica, dalla vocazione maggioritaria di Veltroni alla restaurazione bersaniana in nome della Ditta, dalla parentesi riformista di Renzi al crepuscolo del governismo minoritario, fino all’avventurosa rivoluzione schleiniana, ma l’unica rotta rimasta immutabile nel tempo è stata l’opzione giustizialista, il riflesso pavloviano della giustizia sommaria come scorciatoia per sublimare l’inadeguatezza politica. E’ stato questo il filo rosso degli anni berlusconiani, un filo che i dirigenti dem non hanno alcuna intenzione di spezzare neppure ora che Berlusconi non c’è più. L’ex ministro Orlando, che in queste non brillanti stagioni è sempre riuscito a restare a galla, nel bel libro-inchiesta di David Allegranti sul “nuovo” Pd, ha ammesso con un certo candore che “il giustizialismo non l’hanno inventato i Cinque Stelle, l’ha inventato il Pd… È chiaro che quando non sei in grado di fornire degli strumenti alle classi dirigenti sulla base della lotta di classe, allora viene da sostituirlo con la lotta nei tribunali, attribuendo alla magistratura un ruolo che va molto oltre la sua funzione. Quando ero il responsabile Giustizia del Pd ho provato a sterzare su una serie di questioni, ma fui massacrato da metà del partito”.
Un’autocritica in piena regola, parole che sembravano esprimere la consapevolezza che cavalcare supinamente le inchieste giudiziarie non è la strada giusta per riprendere la guida della sinistra e attrezzare un’alternativa credibile all’attuale maggioranza. Parole al vento, però, visto che appena il gip di Roma, sconfessando la stessa Procura che aveva chiesto l’archiviazione, ha disposto l’imputazione coatta per il sottosegretario Delmastro dopo le rivelazioni sul caso Cospito, proprio Orlando è stato il primo a prendere cappello chiedendo “un chiarimento politico e istituzionale da parte di Meloni e del ministro Nordio, il quale era venuto a Montecitorio a spiegarci con tanto di citazioni dotte perché fosse evidente che non c’era alcuna violazione di segreto”.
Toni e postura del Pd, insomma, non cambiano mai, e la dichiarazione di fuoco della nuova segretaria ne sono la brutale conferma: Schlein, dal suo pulpito radical-massimalista, sembra infatti già essersi iscritta alla corrente del catto-giustizialismo di Rosy Bindi, quella più incline all’assolutismo giudiziario: i casi Delmastro e Santanchè sarebbero “due pagine inquietanti della cronaca politica italiana”, ed è inaccettabile che “Palazzo Chigi alimenti un pericoloso scontro tra poteri dello Stato”. Come se in questi anni turbolenti non fosse stato il partito dei pm, come evidenziato dal metodo Palamara, a destabilizzare gli equilibri democratici. Resta vivo, insomma, e lotta insieme a loro, il vecchio vizio di leggere la realtà con la lente distorta della propaganda, quello che portò la sinistra, pensando di ricavarne un sostanzioso utile politico, ad assecondare la magistratura quando con Mani Pulite pretese di trascinare in tribunale l’intera classe di governo per sostituirla attraverso il criterio della giustizia etica.
La questione morale squadernata da Berlinguer come elemento identitario – anche se i finanziamenti al Pci erano oscuri come le Botteghe sede del partito – ha permeato i suoi partiti eredi, col risultato che il moralismo d’antan ha soppiantato il riformismo, e oggi il Pd si trova a rincorrere le contraddizioni del pifferaio Conte, si tratti della mozione di sfiducia alla ministra Santanchè o la commissione d’inchiesta sul Covid: la prima figlia del peggior giustizialismo grillino, la seconda di un evidente garantismo autoassolutorio.
Del resto, fu Enrico Letta a scrivere sul Foglio, sulle orme di Davigo, “basta con la guerra dei Trent’anni tra giustizialisti e impunitisti”, cancellando così la voce garantismo dalla grammatica del dibattito politico. Ma finché resterà aggrappato alle toghe dei magistrati, senza fare una profonda riflessione sul proprio deficit di cultura e di azione politica, il Pd sarà condannato a lungo alla deriva minoritaria, quella che Schlein, peraltro, incarna alla perfezione.