Nella seconda Repubblica il capo dello Stato è sempre stato espressione o comunque (vedi Scalfaro) vicino al centrosinistra, un po’ per mere coincidenze temporali – visto che sia nel 1999 che nel 2006 prima l’Ulivo e poi l’Unione avevano la maggioranza parlamentare – e un po’ perché una parte del centrodestra ha deciso di dare i suoi voti a un esponente del Pd, come avvenuto per Napolitano nel 2013 e anche con Mattarella. Ebbene, oggi che il tema del presidenzialismo è tornato in auge, vale la pena sottolineare come sarebbe cambiata la politica italiana se ci fosse stata l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Nel ’96, infatti, l’Ulivo vinse le elezioni per puro caso, avendo ottenuto meno voti del centrodestra che si era presentato diviso, e grazie alla presenza di una lista di disturbo, quella di Pino Rauti, che non ottenne alcun seggio ma ne fece perdere molti al Polo delle libertà. Nel 2006 vinse di nuovo Prodi, ma fu un’altra vittoria casuale: l’Unione infatti prevalse alla Camera per 25 mila voti ma perse al Senato, dove ottenne un seggio in più solo a causa di un pasticcio del centrodestra nelle liste della circoscrizione estero. Questo per dire che se nelle due successive elezioni quirinalizie fosse stato il popolo a decidere, e non il Parlamento, il presidente con tutta probabilità sarebbe stato di centrodestra.
E’ per questo che, nonostante qualche apertura di facciata in occasione delle bicamerali, la sinistra resta ferocemente contraria al presidenzialismo, messo al bando come anticamera della svolta autoritaria. Per il Pd il Quirinale è un diritto acquisito per usucapione, occupandolo ormai ininterrottamente da ventitré anni, che diventerebbero trenta se si aggiungesse il mandato di Scalfaro (’92-’99), tutto di stampo antiberlusconiano.
Da qui le reazioni scomposte ogni qual volta viene messo in forse questo sacro dogma, come se il presidente piddino fosse un precetto costituzionale. La riprova si è avuta all’inizio di quest’anno, quando il centrodestra osò chiedere a Berlusconi di candidarsi al Colle, e da sinistra partì un indignato fuoco di sbarramento contro “il tentativo di indirizzare le istituzioni verso una deriva trumpiana”, come se quella candidatura equivalesse all’assalto eversivo al Campidoglio di Washington. Ora, con l’avvicinarsi della possibile vittoria del centrodestra, il partito della Costituzione intoccabile ha deciso di alzare ancora il livello dello scontro, come se il presidenzialismo portasse allo sfascio le istituzioni repubblicane e non fosse solo il tentativo legittimo di riformarle per superare uno dei fattori di debolezza del nostro sistema-Paese, ossia la difficoltà dei governi di attuare i programmi sottoscritti con gli elettori.
Un problema che il centrodestra aveva affrontato con la riforma costituzionale che, insieme alla devolution, prevedeva un rafforzamento dei poteri del premier e la fine del bicameralismo perfetto. Una riforma contro la quale scesero in campo le forze della conservazione con una campagna che la dipinse, more solito, come un disegno eversivo. Sorte che, a onor del vero, dieci anni dopo sarebbe poi toccata anche a quella Renzi-Boschi. Ma il problema della governabilità c’è, e va risolto, chiunque sia al governo, a dispetto di quella “mano invisibile” che vorrebbe tenere questo Paese sempre in mezzo al guado e impedire che qualcosa cambi.
Una palude ideale per il Pd, che con il 20 per cento dei voti, e senza mai aver vinto le elezioni, è stato quasi ininterrottamente al potere per dieci anni e pretende di mantenere un’ipoteca perpetua anche sul Quirinale. La vera anomalia italiana è questa, non la riforma presidenziale che il centrodestra ha inserito nel suo programma. Perfettibile, sicuramente, ma sicuramente utile per aprire un dibattito sulle riforme. Invece siamo di nuovo al muro contro muro, con una minoranza organizzata, assurta a partito-Stato, che si sente padrona delle istituzioni democratiche.