Gli ultimi anniversari delle elezioni del 18 aprile 1948, che costituirono lo spartiacque storico per l’ancoraggio dell’Italia post-fascista alla sfera d’influenza occidentale, sono passati quasi in sordina, senza rievocazioni solenni o appelli alla memoria di una data che fu cruciale per le sorti della nostra democrazia. Il rischio di finire sotto il tallone di Stalin, se avesse prevalso il Fronte Popolare, sarebbe stato concreto: la Costituzione repubblicana era entrata in vigore il primo gennaio, e in quei quattro mesi l’Unione Sovietica con tre mosse micidiali – il colpo di Stato a Praga, l’inizio del blocco di Berlino e l’imposizione di una Costituzione comunista in Romania – aveva avviato di fatto la Guerra Fredda. Nessuno avrebbe pensato, 74 anni dopo, che l’Europa si sarebbe trovata a fronteggiare un’altra sfida ugualmente epocale, nonostante che il comunismo sia storicamente morto, anche se la sua impronta illiberale ha lasciato una marcata eredità sociale e culturale nel pensiero e nell’azione di settori non irrilevanti della politica e della intellighenzia occidentale.
Ma fino a qualche settimana fa era opinione diffusa che l’unico vero nemico delle democrazie occidentali fosse l’integralismo islamico, mentre si riteneva che grazie alla globalizzazione e agli interscambi commerciali Russia e Cina, le due grandi autocrazie mondiali, costituissero una minaccia comunque contenibile, nonostante le numerose avvisaglie, in Medio Oriente come in Africa e nel Far East, di un loro più penetrante approccio per ridisegnare gli equilibri geopolitici.
La guerra in Ucraina ha invece stravolto i vecchi schemi e messo a nudo la fragilità della costruzione europea, terreno fertile e già ampiamente coltivato da una Russia diventata la grande madre dei rinascenti nazionalismi e attivissima nella guerra ibrida per destabilizzare l’Occidente. Per questo oggi, in un contesto così profondamente mutato, quel 18 Aprile riacquista improvvisamente il suo significato originario: allora fu paragonato a una seconda Lepanto, la battaglia che aveva impedito ai musulmani di invadere l’Europa.
Se il 25 aprile del ’45 aveva segnato la fine del nazifascismo, il 18 aprile di tre anni dopo fu la data in cui l’Italia scelse la democrazia e la libertà, sconfiggendo il pericolo frontista. Insieme alla Dc di De Gasperi vinse insomma la maggioranza del Paese che aveva capito quanto sarebbe stato esiziale consegnarsi in mano al Pci di Togliatti, proprio mentre in tutta l’Europa dell’Est i partiti comunisti obbedienti a Stalin costituivano Repubbliche popolari sottomesse all’Unione Sovietica. La vittoria arrivò grazie alla mobilitazione dei partiti democratici e allo spirito di crociata dei comitati civici un anno prima della scomunica lanciata da Pio XII, il 28 giugno del 1949, nei riguardi dei cristiani che aderivano alla dottrina di Marx e collaboravano con i movimenti comunisti.
Oggi è forse improprio parlare di un nuovo scontro di civiltà, ma con l’inatteso ritorno della Guerra Fredda e della cortina di ferro che Putin vorrebbe rialzare nell’Est europeo, dobbiamo dirci più che mai tutti figli del 18 Aprile 1948. Allora il Fronte Popolare fu sconfitto grazie alla levatura politica e morale di uomini come De Gasperi, Saragat, Einaudi, Pacciardi, che seppero indirizzare l’Italia dalla parte della libertà, della democrazia, dell’atlantismo e dell’europeismo, valori che restano irrinunciabili e ci richiamano a un’altra scelta di campo senza ambiguità. Ed è sconfortante constatare come pacifisti, neutralisti e filo-Putin abbiano finto di dimenticare la lezione della storia.