Ma perché Francia e Israele scendono in piazza e in Italia regna invece una inspiegabile calma piatta? Non abbiamo forse noi il governo peggiore, fatto di post-fascismo, leghismo e rottami del berlusconismo? Possibile mai che di fronte a un governo così le forze sane della società non abbiano ancora prodotto qualche anticorpo e una mobilitazione permanente?
Il presupposto di questo indignato stupore nasce dalla convinzione che i rischi corsi dalla democrazia italiana siano uguali, se non peggiori, a quelli francesi e israeliani: non c’è forse anche qui una crisi sociale senza fine, non è stata rialzata anche da noi – e in modo più brutale – l’età pensionabile? E perché allora a Parigi fanno le barricate e qui non succede nulla?
Non solo: passando dai diritti sociali ai grandi principi costituzionali, si ricorda con disappunto che Israele è sceso in piazza per difendere la separazione dei poteri messa a rischio dalla illiberale riforma della giustizia di Netanyahu, e che la Francia sta protestando contro Macron per aver scavalcato il Parlamento, mentre l’Italia resta silente nonostante qui, in modo strisciante, stia succedendo praticamente lo stesso: l’autonomia differenziata e il presidenzialismo, infatti, non sono anch’essi i prodromi inquietanti di una torsione autoritaria? Come l’annunciata volontà di separare le carriere dei magistrati?
“Eppure – ha scritto sconsolato un filosofo – di fronte a tutto ciò il nostro immobilismo è plateale tanto quanto la loro mobilitazione”. Serpeggia, insomma, nei circoli della sinistra intellettuale, una latente nostalgia dei tempi andati e delle piazze sessantottine, deglibscioperi a oltranza, della guerriglia urbana e dei trasporti pubblici bloccati: un revival insomma della lotta di classe e della “grande stagione antiberlusconiana”. Servirebbe molto di più, dunque, degli sporadici week-end antifascisti benedetti dalla Schlein, o delle piazze Lgbt+.
Intendiamoci, non c’è nulla di inedito in questa postura, perché sono ormai decenni che la sinistra, invece di interrogarsi sui motivi della distanza che intercorre tra sé e il Paese reale, si rifugia nelle antiche parole d’ordine e agita il fantasma dell’emergenza democratica. Accadde con Berlusconi, quando Arcore divenne la nuova Bastiglia da assaltare.
Lo spettro di una restaurazione autoritaria, del resto, è una teoria tenacemente sostenuta da un gruppo di alti pensatori secondo cui ormai viviamo in un’Italia “che puzza di fascismo” e in preda a un’inarrestabile deriva che, se non ha ancora rotto tutti gli argini legali, sta però demolendo quelli culturali.
Paragoni tagliati con l’accetta della semplificazione, frutti avvelenati del pensiero post-sessantottino ormai rinchiuso nei suoi recinti ideologici e incapace di mobilitare le masse. Gli restano i riservisti-pensionati della Cgil, e gli resta soprattutto il 25 Aprile, data ideale per riaprire le ferite storiche e marcare la molto presunta superiorità morale della sinistra, che è sempre stata antifascista, mai però anticomunista.
Non è un bruscolino nell’occhio: è una trave ideologica che chi sale ogni anno in cattedra non ha ancora veramente rimosso.