L’università di Arezzo nacque intorno al 1200. Durò per tutto quel secolo e sopravvisse anche per buona parte del 1300, nonostante la sberla di Campaldino.
Era situata nel cuore della città nella zona oggi occupata dalla chiesa di san Pier Piccolo e edifici adiacenti.
I contemporanei non hanno avuto la lungimiranza dei nostri avi. La civiltà comunale del Medioevo aveva inteso che il sapere rappresentava il consolidamento del potere politico e della robustezza economica conquistata.
Nei nostri anni è stato diverso. I “guadrini” son parsi sufficienti per una durevole età dell’oro e il potere politico, fedele alla sua vocazione gregaria mai ha valicato le anguste mura dei giochi paesani, utili ai pochi mediocri che hanno menato per decenni le danze.
Fu così che fra pollai, stabbioli dei maiali, stalle per bovi e micce, in una fattoria di proprietà della diocesi a san Fabiano, sulla collina a nord est della città’, Amintore Fanfani istallò per dispetto ai ‘rossi’ che la governavano un simulacro di università’, o meglio il Magistero, costola dell’Università di Siena. Mai vi fu amore fra questo oggetto misterioso, le sue lezioni fra lo scoccodare delle galline del vescovo e Arezzo e la sua amministrazione.
Fino a quando siglata la pace fra i Giannotti boys e i Fanfani friends, Arezzo divenne una succursale di Siena, dei suoi movimenti fra docenti, un’appendice dei giochi di politici e di potere fra accademici, gruppi e gruppetti. La città non ne trasse beneficio alcuno. Rimase estranea, non visse fermenti culturali significativi, il mondo della produzione rimase a distanze siderali.
Non si vide il centro storico vivacizzato da nugoli di studenti, né si registrò l’apertura di una libreria in più, di una galleria, di un circolo, niente. Si disse anche che Arezzo era un’università ‘in treno’. Perché’ dalla moglie di d’Alema in là tutti i docenti venivano a fare la lezioncina di prammatica e tornavano alle loro sedi principali e alle loro residenze, disdegnando non dico metter radici, ma financo il minimo contatto
Poi ci fu il Polo (Universitario). Già ci si misero tutti gli enti e anche qualche privato, chi in buona fede chi per convenienza, e Arezzo si frugò e divenne lusingato finanziatore senza ritorno dell’Università di Siena. A opporsi che mi ricordi io soltanto, ma mi posso sbagliare. Spiegai che il Polo gregario e subalterno per definizione era un errore, che avremmo solo finanziato le esigenze di un altro Ateneo ben più provvisto per storia dimensioni, tradizione. Dissi anche che l’università’ tradizionale e per di più al servizio di un altro centro e di dimensioni men che ridicole, era un’inutile fabbrica plurireplicata di altre officine per diplomi e medaglie sul petto di politici un po’ vanesi e di vista corta. Stage per inutili illusioni di disoccupati qualificati. Spesa inutile, priva di ogni senso se non consentire a qualche papavero locale di fare un po’ la ruota del pavone.
Proponevo un’università libera finanziata con gli stessi soldi dati al Polo, ma che immettesse sapere, che facesse di Arezzo punto di incontro di cognizioni superiori, di specializzazioni e di nuove proposte accademiche. Di roba insomma che nessuno aveva e che avrebbe potuto lasciar semi e radici. Senza passato recente senza lobbies consolidate, sarebbe stato possibile inaugurare una vera eccellenza anche economicamente significativa.
Più’ che isolato fui ignorato e continuò il balletto del potere paesano e della borghesia un po’ d’accatto intorno al costoso e inutile feticcio. ‘Fino a che -dicevo io-non servirete più’ sarete fatti fuori senza rimpianti. ‘Facile profezia, nonostante la doverosa smentita da Siena. Altra occasione perduta, altro flop di una classe dirigente allarmante per piccineria, miopia, egoismo. Altri soldi buttati, altra opportunità buttata al vento. Non oso dire ‘ben vi sta’. Ma ci starebbe. E la barca va. Anzi affonda.